Società
Milano e la fregola dell’innovazione. Da polo tecnologico, a bolo alimentare.
E adesso che a Milano mancava un’altra week, finalmente l’hanno trovata: dopo la Fashion Week, dopo la Design Week, è arrivata e si è già conclusa la Food Week. E subito dopo ne hanno inventata un’altra: la Milano Arch Week. Senza contare tutte quelle altre week che nascono ormai spontanee come la cicoria o la margherita pratolina a bordo strada, tipo la Class Digital Experience Week o la Social Media Week. Bei tempi quando ai milanesi bastava e avanzava la settimana bianca.
Quelli che pensavano che Londra fosse, insieme a New York e San Francisco, la capitale indiscussa del mobile e dell’innovazione, la città europea in cui tutto quello che accade di nuovo nel campo delle tecnologie digital, dei nuovi media e dell’informatica arriva prima, forse hanno sbagliato aereo. Perché, invece, pare che adesso sia Milano “l’avanguardia”, la “capitale di moda, arte e design, musica, fiere ed esposizioni, ma anche della tecnologia”, e “da sempre all’avanguardia sui temi dell’innovazione“. E chi lo dice? Il Corriere della Sera. Ah beh, sì beh. E non ci scappa neanche da ridere, perché ormai questa è la normalità, dentro la tradizione che alimenta i luoghi comuni: i bauscia de Milan che fanno da contraltare, per dire, ai goss de Bergum, eccetera.
Ci viene però il sospetto che spararle grosse rientri, non solo nella tradizione di certe maschere milanesi, ma anche nella strategia sostenuta da una propaganda che vorrebbe mettere una città ormai divisa in compartimenti stagni, impoverita e degradata soprattutto nelle periferie – che ha perso l’anima e le fabbriche, che si vedrà levare prossimamente i suoi gioielli della sanità, della ricerca e dell’istruzione, come Besta, Istituto dei Tumori e le eccellenze storiche della Statale, e che rischia di diventare una città di servizi e di badanti – al centro dell’universo.
“Avanguardia” e “innovazione” sono parole magiche ripetute con ritmo ossessivo come nel rito popolare del tarantismo che prova a curare un fenomeno isterico convulsivo. È un’informazione tarantolata, quella che inventa a ripetizione dei casi inesistenti, pur di attenersi alla costruzione della “Milano da mangiare” del futuro, come la chiamava un giornalista che sapeva fare il giornalista, Alberto Statera. Un esempio? Andiamo nel sito online del Corriere e ci colpisce una notizia: “Amazon sceglie Milano”. Facendo intendere che “il colosso dell’e-commerce” abbia scelto di trasferirsi, non si capisce da dove, a Milano. Ma la verità sottaciuta è un’altra, una non-notizia. Perché l’headquarter si trova già a Milano da cinque anni, da settembre 2012, nello storico e bel palazzo delle Regie Poste di via Ferrante Aporti, e, come ci conferma un amico che lavora lì da alcuni anni, viene semplicemente trasferito in una sede più grande in viale Monte Grappa: sono soltanto 2 km di distanza, 7 minuti in auto, 20 minuti a piedi, non è che sia questa grande notizia. Però “Amazon sceglie Milano” strillato sul Corriere fa un effetto della Madonna, sulla scia di altre notizie costruite e diffuse con lo stesso metodo: “Turismo. Milano traino d’Italia” (soltanto per dire che ha aperto l’ultima edizione della BIT? Ma si fa a Milano da quasi 40 anni!) oppure “I migliori atenei del mondo: Milano al top” (in realtà sono alcuni corsi segnalati in una classifica inglese), oppure La7, stesso editore, che, nello sforzo di dimostrare che Milano è una città solidale (ovviamente al top, ci mancherebbe), spara: “Milano, 100.000 in marcia per l’integrazione”, ma alla marcia in favore dell’accoglienza ai migranti erano il 90% in meno (Giorgio Dell’Arti, 21 maggio 2017: “Forse non centomila persone come pretende l’assessore Majorino, inventore dell’iniziativa, ma un 10-15 mila certamente sì, ieri a Milano”). E così via. Dispiace per Majorino che è simpatico, con quell’eterna faccia di chi ha appena bevuto il cappuccino con una montatura del latte a regola d’arte, ma a noi viene in mente Denzel Washington quando dice che ai giornalisti non importa più dire la verità: “Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male”.
In questo festival dell’ottimismo (che come è noto è il sale della vita, ma non per tutti, per esempio agli ipertesi e ai nefropatici gli tocca fare i pessimisti), in questa strategia dell’ottimismo ad oltranza, non si capisce se ci sia un calcolo programmato, a orologeria, con un rosario di suppliche e invocazioni bibliche – innovazione! innovazione! – dove viene recitato anche l’inimmaginabile: come in una recente intervista che abbiamo trovato su Youtube in cui una professionista “esperta di innovazione” sosteneva che Milano è il centro del mondo delle startup, e che non sarebbe seconda neanche alla Silicon Valley, se non fosse che, forse, “l’unica differenza sono i numeri”. I numeri?! È chiaro che a Milano c’è della gente ormai fuori di testa. Suonava tanto “Se Parig tenev u’ mar sarebbe na piccola Bar”, o, nella versione più indigena, “se Seattle avesse l’idroscalo sarebbe una piccola Tregarezzo”. Incuranti del ridicolo. Tanto ormai ognuno può sparare le stronzate che vuole, senza tema di smentita. E scusate il tono antiretorico, ma quando ci vuole, ci vuole; anche se sappiamo bene che c’è fermento (e noi di Crebs lo sperimentiamo ogni giorno, da sei anni, nel nostro boxing ring), che c’è tanta gente molto preparata e motivata, compresi alcuni attivissimi assessori. Però, se qualcuno ha voglia di approfondire senza grotteschi squilli di trombe e con un approccio meno sdilinquito, può affidarsi ai numeri, quelli veri; e senza bisogno di confrontarsi con gli Stati Uniti, magari con la più vicina Francia. Un esempio? La Classifica Technology Fast 500 di Deloitte 2016 che misura la performance delle più brillanti start-up del Vecchio Continente: la Francia occupa la prima posizione, con 94 società, superando la Gran Bretagna (70) e la Germania (23); l’Italia è praticamente inclassificabile perché le start-up nazionali che crescono di più sono soltanto dieci (al terzo posto tra le italiane compare la parmense Caffeina, nome noto agli amici di Crebs: complimenti Tiziano!), meno che in Turchia o in Polonia. E inoltre: soltanto il 30% delle startup italiane iscritte al Registro delle Imprese ha un fatturato che supera i 100mila euro; le scaleup francesi hanno raccolto 2,2 miliardi di euro nel 2016, le startup italiane sono ferme a 180 milioni; media delle risorse umane impiegate: 25 in media in Italia contro 46 in Francia. Ecco, questi sono i numeri. E per fortuna qualcuno comincia a ragionarci sopra, sulla retorica che circonda Milano “traino dell’Italia” e che è diventata insopportabile, come Linkiesta che finalmente sbotta (senza esagerare) e invita tutti ad un più opportuno ritorno alla realtà: “Piantatela di celebrare Milano, le state scavando la fossa”. L’articolo è da leggere.
Ma cosa sarà mai questa frenesia da innovazione? Dicono che sia l’onda lunga di Expo, il luna park della bruschetta dove persino il Vaticano, che in questo periodo è in piena questua e cerca di scuotere gli italiani alle prese con la dichiarazione dei redditi con gli spot dell’8 per mille, ha speso quasi 3 milioni di euro per un padiglione nato per essere rottamato dopo pochi mesi. L’onda lunga di Expo, dicevamo, che ha il compito, l’obbligo di non spegnere i motori. È come i vecchi diesel. Basta una spinta. Perché è con la spinta dei danee che si fanno i danee. Lo sanno bene le banche. E lo sanno bene quegli organi di informazione per cui Expo, che ha spalmato un fiume di denaro in pubblicità, è stata una festa da leccarsi i baffi (a proposito di cibo). Per il resto, tutti tranquilli. Come si dice a Milano, “maja, bev e caga, e lassa che la vaga”.
E così, spinta dopo spinta, è arrivata la week che mancava, dedicata al cibo. Il piatto forte era The Global Food Innovation Summit – Seeds & Chips (la traduzione è un po’ indigesta: volevano dire “semi e componenti elettronici”, oppure era una spiritosa interpretazione di fish & chips?), evento dedicato alla tecnologia e all’innovazione (ovviamente) nella filiera agroalimentare. Con tante iniziative collaterali, tante che alla fine perdevi il filo in questo disordine alimentare, tra le immancabili startup e il futuro prossimo venturo (Future Food Valley), e gli appuntamenti “imperdibili” come Taste of Milano, che fa molto Coca-Cola Taste the Feeling, però quello di Milano è il festival degli chef, mica la festa dei ruttini. In realtà la week vera e propria l’hanno chiamata Milano Food City, un vero fuorisalone in linea con il senso di tutte le altre “week”: un’invenzione recente del sindaco Sala, che si svolge in concomitanza con la fiera Tuttofood dedicata alle aziende del settore food & beverage che si tiene da anni alla Fiera Milano, che non è a Milano, ma nel deserto suburbano di Rho/Pero. Durante la presentazione dell’evento, il sindaco Sala si è fatto prendere dall’entusiasmo e ha detto che Milano, con questo Global Food eccetera, diventerà la “Davos del cibo”.
Come è abbastanza noto a tutti, a Davos, nei Grigioni svizzeri, si svolge l’evento promosso dal World Economic Forum, una fondazione con sede a Ginevra, la capitale dei capitali di ogni provenienza: dispiace che non venga in mente un modello migliore. Anche perché abbiamo ancora il ricordo di un articolo di Vice News su Pane Quotidiano, l’organizzazione no profit che a Milano distribuisce una media giornaliera di oltre 2200 razioni gratuite a poveri e indigenti. In quell’articolo ci aveva colpito una considerazione di Joan, un volontario peruviano dell’associazione: “Il numero di poveri e affamati in Italia sta crescendo. Dopo molti anni a Milano, in autunno tornerò in Perù. Le cose, laggiù, si stanno rimettendo in piedi. L’Italia, invece, sta affondando.” Più che una “Davos del cibo”, sembra l’allegra nave di Schettino.
Nonostante Expo, la fame a Milano è ancora un problema sociale
Poi, se si ha voglia di conoscere meglio il percorso della povertà e della fame a Milano, resta sempre valido un lungo articolo dello scrittore Giorgio Fontana pubblicato due anni fa su Internazionale, quando la città metropolitana si preparava al grande evento di Expo che aveva l’ambizione di “ridurre la povertà e attenuare” – i milanesi sono pragmatici, mica si possono eliminare certe cose, no? – “le disparità sociali nel mondo”. L’altro giorno abbiamo visto in tv una breve intervista a Gianni Mura: si parlava di Beppe Viola, ma ne ha approfittato per ricordare che Milano è sempre stata una città di grandi contraddizioni (e come dargli torto?).
Alla “Davos del cibo” è arrivato anche Barack Obama, accompagnato dal noto statista di Rignano. E siccome tra le varie iniziative c’era anche il solito spazio dedicato all’ipocrisia, per esempio quello sugli sprechi alimentari, c’è chi ha fatto notare che il vero spreco erano gli 850 euro che si spendevano per sentire Obama dal vivo (per non parlare del generoso compenso per lo speech). Ma il grande dubbio era un altro: di che ci possono parlare gli americani custodi del cattivo gusto (di cui Donald Trump è il simbolo più recente e già avariato), di noodle casserole, chex mix, chicken spaghetti, sloppy Joe, cake pops, puppy chow, coca-cola meatball? Che c’entrano gli americani campioni dell’omologazione con un paese campione delle specialità e delle biodiversità come l’Italia? Vengono qui per promuovere una versione alternativa del TTIP o non gliene importa niente perché tanto ora c’è il CETA? Ci viene in mente il finale di Killing Them Softly: mentre, dalla TV accesa nel bar, si vede Barack Obama che celebra la vittoria nella notte delle elezioni con un discorso “ispirato”, Jackie (Brad Pitt) si rivolge con rabbia a Driver (Richard Jenkins) e, riferendosi alla retorica ottimista di Obama, conferma, invece, tutto il buio morale di un paese in piena recessione: “This guy wants to tell me we’re living in a community? Don’t make me laugh. I’m living in America, and in America, you’re on your own. America is not a country; it’s just a business. Now fucking pay me”. Un business? Ecco, l’ex presidente americano avrebbe potuto svelare, per esempio, come si forma il prezzo delle materie prime cerealicole, e perché e come strozzano i contadini italiani. È la finanza americana che altera i rapporti commerciali e distorce l’economia reale e impoverisce i nostri contadini. Bastava invitare Carlo Petrini, per spiegarlo con poche parole. Ma poi perché rovinare il gran ballo alla “Davos del cibo”?
Come si è arrivati a spingere i nostri contadini a minacciare di non seminare più i loro campi?
Al gran ballo magmatico delle debuttanti e degli attempati, dei munifici rettori e degli “esperti” che ormai sono una vera classe sociale, dei finanzieri, incubatori, acceleratori, degli innovatori veri e degli startuppari reduci dei Cervelloni di Bonolis, dei tizi privati e delle pubbliche tivvù, quello che capisci è che ormai è sparita la parola cibo, sostituita da food, world, exhibition, show-cooking, milkcoop forum, bakery, oil, meat, dairy, frozen, grocery, green, deli, fruit & veg innovation (e ti pareva, l’innovazione!), academy 1 e 2 e via enumerando, cooking seafood oriented, green e blue economy: l’unica cosa che resta immutabile, per ora, è la parola “pasta”. Insomma, in questo grande disordine alimentare, sembra che i milanesi non abbiano altro a cui pensare oltre al bolo alimentare.
Però se non frequenti i suk arabi (ovviamente innovativi) del lusso e ti infili con molti nel crepuscolo del ritorno a casetta, la sera, hai davanti agli occhi una pellicola di facce stanche, di gente distrutta dal lavoro, con in tasca il suo bel contratto interinale di somministrazione che gli garantirà una bella pensione dopo 168 anni di lavoro, che si infila di corsa al supermercato per spendere l’ultimo voucher e comprare cibi pronti, affettati e formaggi molli da ingollare poi a casa in fretta e furia: cosa vuoi che gliene freghi della veg innovation? L’altra sera ci è capitato di salire nella metro verde per Caiazzo. Il vagone era pieno e la scena era surreale. C’era un solo sedile libero: libero, perché c’erano sparsi sopra resti di cibo e carta oleata. Perciò nessuno si sedeva. È il quadro simbolico e deprimente della situazione vera. Li guardi in viso, i passeggeri che fissano quelle cartacce, e se ti viene in mente un film, è Scorsese: “Non c’è happy end a fine giro“. Intanto stai lì e aspetti la tua fermata. Tanto, dopo un presidente americano, arriverà di sicuro, in questo delirio dei sensi, anche il tenente colonnello Kilgore con gli elicotteri. Così poi Mr. Clean lava e pulisce tutto. E via anche le cartacce. (Tra la generalessa Pinotti che vuole ripristinare la leva obbligatoria, la Boldrini che viene rimproverata perché alla parata del 2 giugno non si è appuntata la patriottica coccarda tricolore, la “gaiezza che risorge nel cuor” della propaganda spinta dalle tv e dai giornali governativi, e l’aria di neofascionismo che pervade la cronaca bianca che sconfina in quella rosa e viceversa, non sentite una strana aria di Ventennio? Noi sì, un po’).
Quando al fine d’un giorno noioso
la gaiezza risorge nel cuor,
cerca ognuno il perché prodigioso
e domanda con grande stupor
donde viene questa gioia verace.
Ogni crisi finita è davver,
forse al mondo ritorna la pace!
No, credete, è un motivo più ver.
Se d’affanni, vecchi malanni,
non si sente più novella,
se ciascun sorride lieto
e la vita trova bella,
se ragione misteriosa
a gioir ciascuno appella,
questa è l’ora senza pari,
questa è l’ora del Campari!
Brilli il sole nel cielo in festa,
o di pioggia si innondi il terren,
a quest’ora nel cuor si ridesta
il pensiero che tutto va ben,
poiché la gioia calda e vermiglia,
e il sol ci rifiuta calor,
Campari l’ha chiusa in bottiglia
onde tutti ripetono in cor:
Se d’affanni, vecchi malanni,
non si sente più novella,
se ciascun sorride lieto
e la vita trova bella,
se ragione misteriosa
a gioir ciascuno appella,
questa è l’ora senza pari,
questa è l’ora del Campari!
Quando gli stranieri in carovana,
dalle brume di nordico suol
ripercorron la terra italiana
nel tepore dell’italo sol,
ammiran sui colli di Roma
nuove glorie ed eterno splendor,
ma lasciando de fiori a Roma
con rimpianto ripeton tra lor:
Se d’affanni, vecchi malanni,
non si sente più novella,
se ciascun sorride lieto
e la vita trova bella,
se ragione misteriosa
a gioir ciascuno appella,
questa è l’ora senza pari,
questa è l’ora del Campari!
La canzone “L’ora del Campari” era eseguita nel 1932 da Ferdinando Crivelli, cantante “leggero tenore” milanese molto attivo negli anni del regime. Era una canzone pubblicitaria a 78 giri, ovviamente dal tono e dallo spirito fascista, ripresa 76 anni dopo, senza troppi scrupoli, dall’agenzia DDB per uno spot Campari.
Che Milano abbia fame te ne accorgi dalle piccole cose. Hanno fame anche gli eserciti organizzati di topi (impossibile fare una stima corretta, nessuno si prende la briga di contarli, ognuno immagina le cifre che vuole, però in molte metropoli del mondo si calcolano da due a tre topi ogni abitante) che popolano Milano, e che fanno i ganzi soprattutto dove sono in corso lavori e vengono aperti cantieri. E attualmente Milano è un grande cantiere, anche perché stanno costruendo l’ennesima metropolitana destinazione S.Babila, evidentemente eletta centro del mondo. Non c’è nessuna emergenza dice il comune, ci mancherebbe. Però noi i topi li vediamo. Parli in giro, parli col vicino di casa alle prese col topo che gli sale sul balcone, col custode, con gli amici, vedi su Youtube la gente che strilla; oppure mentre vai a fare la spesa all’Esselunga (è successo a noi) e attraversi via Cena in bicicletta, i topi ciccioni ti tagliano la strada di corsa, e sospetti che qualcosa non quadra quando dicono che a Milano i topi non ci sono, son tutti a Roma. Alessandra Moretti, l’incredibile ladylike del PD, va dalla Gruber (con quel nome da insetticida della Bayer, poi) a dire che un bambino romano è stato morsicato da un topo, anzi no, è addirittura morto. Per poi scoprire che non è morto nessuno. E così i giornali descrivono Roma invasa dai topi, mentre a Milano cala il silenzio stampa, o quasi.
Milano, topo morde una donna al parco Sempione. Il neo sindaco Sala intervenga
E invece a Milano i topi ci sono. Ma perché non parlarne? Noi non abbiamo pregiudizi: i topi, come tutti gli animali, non ci hanno mai impressionati. Sono carini. E abbiamo detto carini, non “buoni”. Se no corri il pericolo che, con tutti questi chef esaltati dalla famosa onda lunga, qualcuno s’inventi pure una mousefood experience. Ci chiediamo chi ci arriverà per primo. Forse lo chef Bottura che sogna la mensa stellata per poveri? Quello che se vinceva il No al referendum del 4 dicembre se ne andava a New York? No, non pensiamo agli chef, che pure sono creativi, anche troppo. Pensavamo a qualcuno che possa trovare rimedi innovativi, soluzioni anche inaspettate. Del resto Milano è la capitale dell’avanguardia e dell’innovazione. Va bene che tutti i cervelli sono in fuga, ma intanto qualcuno l’avranno riportato a casa, no? Perciò mettiamola giù dura, senza paura di fare una domanda idiota (mica ci è mai venuto in mente di sostituirci ad Alberto Angela, anche perché ci frega l’albero genealogico): milioni di topi possono diventare una fonte inaspettata di benessere? E qui ci vuole una bella ricerca, fatta da quelli bravi. Magari una risposta la potranno dare i geni dell’Human Technopole prossimo venturo inventato da Renzi e dal suo cerchio di finanzieri per dare un senso ai debiti dei terreni ex Expo, dove è in moto una strisciante speculazione che potrebbe cambiare Milano, ma in peggio, perché la svuoterebbe di contenuti, di ricchezza culturale, di storia.
Qual è il problema? Cerchiamo di dire quello che ci è sembrato di capire, e di spiegarlo alla buona. Il problema sono i terreni dell’Expo (nessun privato li vuole comprare) e i debiti. Soluzione? Due piccioni con una fava. Spostiamo le attività scientifiche e culturali milanesi (lo chiameremo “campus” che fa molto università di Princeton) in questo deserto suburbano di Rho, e impiantiamoci anche delle nuove attività, per esempio IBM e altre multinazionali. Come? Creando un centro tecnologico chiamato Human Technopole, un centro di ricerca. E a chi affidare la ricerca di non si sa ancora cosa?All’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, una fondazione di diritto privato ma finanziata in modo massiccio dal governo cioè dagli italiani, scatenando polemiche e proteste, a cominciare dalla senatrice milanese Elena Cattaneo che ha sospettato subito “un grande spot fondato sull’improvvisazione” (non sappiamo se intanto abbia cambiato opinione: succede anche agli scienziati). Per capirne di più, si può cominciare da lontano, da alcuni link (Il Fatto Quotidiano, Il Post e il sempre interessante Gianni Barbacetto) che indichiamo qui sotto.
Expo, chi finanzierà la ricerca dell’avveniristico Human Technopole?
I dubbi sul progetto per il dopo-EXPO
http://www.giannibarbacetto.it/tag/ibm/
Ma l’altro grande problema, quello che coinvolge direttamente molti milanesi, è che Città Studi, una zona importante di Milano, ricca di storia, attività scientifiche e di ricerca, piena di angoli incantevoli, rischia di svuotarsi. Dall’Istituto neurologico Carlo Besta all’Istituto dei Tumori, che potrebbero finire a Sesto, ai dipartimenti scientifico e medico della Statale (altro che tuttofood: non tutti si rendono conto che Milano ha la facoltà di Scienze agrarie e alimentari più grande in Italia, antichissima perché la sua lunga storia inizia con la Regia scuola superiore di agricoltura fondata nel 1870, con attività e competenze vaste e importanti), che, su proposta di un medico di Boviso Masciago diventato Magnifico Rettore della Statale, rischiano di finire nel deserto suburbano di cui si parlava prima. L’obiettivo? Il trasferimento delle attività della Statale costerebbe circa 380 milioni, spesa attenuata dalla “valorizzazione” dell’esistente, che vuol dire: vendiamo i palazzi e i terreni di proprietà della Statale. A chi? Qualche fondo cinese? Qualche emiro del Qatar? Non si sa. Quello che si sa, è che Città Studi si svuoterebbe subito di almeno 20.000 persone: una cosa enorme, sciagurata per l’economia della zona, e che snaturerebbe l’anima di questo bel territorio della città. Tenendo poi conto del fatto che le attività della Statale, come i gioielli della sanità, sono di tutti i milanesi, che mal sopporterebbero lo scippo anche morale di una decisione presa dall’alto, senza curarsi del futuro del quartiere, mettendo a rischio qualità urbana, vitalità e vocazione culturale. Come si può dedurre dall’articolo di Camilla Ilaria Colombo sulla Stampa e dalle proteste dei residenti.
Città Studi, studenti, cittadini e una parte della Statale dicono no al trasferimento a Expo
Leggi la lettera aperta e appello dei cittadini di Zona 3 al Sindaco Giuseppe Sala
Eppure, soltanto due anni fa in un’intervista all’Espresso, proprio il rettore della Statale diceva delle verità incontestabili: “Le università sono generatori di ricchezza. Ricerche dimostrano che dove c’è un ateneo che attrae, le istituzioni investono per migliori infrastrutture, che servono a tutti. Poi ci sono le spese dei ragazzi per vitto e alloggio, certo, ma anche uno sviluppo a lungo termine: i laboratori portano brevetti, quindi tecnologia, quindi potenziale innovazione”. E allora, perché privare una vasta fetta di territorio di questa ricchezza, portando via da Milano università (che finirebbero a 50 minuti da Città Studi) e ospedali con i loro centri di ricerca? Altrimenti potrebbe venire il dubbio che ci si riferisca a un’altra ricchezza, e che i trasferimenti abbiano lo scopo di valorizzare le aree di competenza dei cacciatori di dote: quelli che fanno i matrimoni di interesse con i cacciatori milanesi di cubature immobiliari, che siano i terreni della ex Falck a Sesto, o quello che Curzio Maltese definisce, con disperata ironia, “il magnifico sito, punto d’incontro fra tangenziali, carceri e cimiteri” dove sviluppare “un’onesta speculazione sul terreno dell’ex Expo”, che servirà a svuotare “di fondi pubblici e studenti le università milanesi per concentrare tutto sull’amena Rho”.
Aveva previsto il percorso, Alberto Statera, lo aveva “annusato” da bravo giornalista, quando tre anni fa scriveva su Repubblica di quell’area di Rho che nella forma e nell’odore gli ricordava un “pesce spiaggiato”, ma sbagliando sulle cifre, che allora non immaginava di gran lunga superiori: “L’Expo servirà per attirare una speculazione immobiliare da 3 o quattrocento milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo”. Statera (scomparso un anno fa) non poteva prevedere neanche l’arrotondamento per eccesso, cioè l’ulteriore possibile speculazione, oltre a quella nei terreni Expo, nel quadrilatero tra le vie Celoria-Ponzio-Mangiagalli-Colombo di Città Studi, con la ventilata vendita (che chiamano “valorizzazione”) dei terreni e degli edifici della Statale, su cui tra l’altro è presente un vincolo monumentale. Ma cosa vuoi che sia, un vincolo? Per farci una croce sopra non servirà mica una laurea: con le soprintendenze che rischiano la soppressione, chi se ne frega dell’estetica di una città. Però, chi poteva immaginare che sarebbe andata a finire così? Eppure, a veder bene e a pensare male, non ci volevano particolari capacità divinatorie per immaginare il resto. E che cos’è il resto? Per esempio, fa riflettere l’ultimo rapporto dell’Agenzia delle entrate sugli immobili, secondo cui Milano ha un vero primato, finalmente misurabile, incontestabile: quello della cementificazione. Le case occupano il 38,5 per cento del territorio comunale, mentre la media in Italia dei maggiori capoluoghi è del 14,9 per cento, con Roma all’11,9 per cento. Cementificazione, il mestiere più antico del mondo. Altro che “innovazione”.
Saul Steinberg, consacrato dalla critica come uno dei maggiori artisti del XX secolo, di sicuro uno dei graphic designer più influenti, è stato studente della Facoltà di architettura del Politecnico di Milano, iscritto nel 1933 e laureato nel 1940. In seguito alle leggi razziali del ’38, venne anche recluso a S. Vittore e poi nel campo di internamento di Tortoreto istituito dal governo fascista e destinato in prevalenza agli ebrei stranieri. A parte gli episodi, diciamo, più “sfortunati”, Steinberg aveva un legame importante con Milano, dove aveva lasciato dei graffiti-murales, di cui uno alla Triennale, poi cancellati o distrutti. Aveva conservato anche dei rapporti con gli amici di un tempo, soprattutto con Aldo Buzzi, altro studente di Architettura: insieme, erano dei fantastici maestri di ironia (ai nostri coetanei che non l’avessero letto, consigliamo almeno la lettura di “L’uovo alla kok” di Aldo Buzzi, con i disegni di Saul Steinberg, brillante conversazione interrotta da ricette che mostrano come la cucina, prima di ogni altra cosa, sia un sapere occulto che serve al piacere come alla sopravvivenza). Negli anni dell’università, Steinberg abitava in via Pascoli (la stessa via in cui cinquant’anni dopo venne aperto lo storico centro di assistenza Apple che riparava i computer della mela provenienti da tutta Italia: dal parcheggio si poteva vedere bene il palazzo art déco del “Cremlino”), in Città Studi, perciò ci sono dei suoi disegni che ricordano quella zona e quel periodo. A Milano si manteneva anche collaborando con due giornali satirici, il Settebello (dove collaboravano anche Campanile, Zavattini, Maccari) e il milanese Bertoldo della Rizzoli (che aveva la redazione in Città Studi, in piazza Carlo Erba, dove collaboravano i soliti Zavattini e Guareschi, e inoltre Marcello Marchesi, Metz, Federico Fellini). Due anni fa c’è stata una bella esposizione nello spazio mostre del Politecnico in via Ampère, ovviamente in Città Studi, importante per capire tutta la sua sensibilità e “il lavoro attento alla città, all’architettura, agli spazi del vivere quotidiano”. Scomparsi questi personaggi, ci chiediamo chi sono gli eredi, chi resta a garantire la stessa “attenzione” per la città e per gli spazi del vivere quotidiano: qualche archistar, i munifici rettori o quelli dell’Human Technopole? Intanto è stato appena annunciato il numero chiuso anche per le facoltà umanistiche: per l’imbottigliamento degli studenti è previsto il regime apri e chiudi, o twist-off. A parte le battute: una decisione secondo molti sbagliata, e grave. Perché forse si può capire il numero chiuso nelle materie scientifiche, ma non, come ha scritto bene il professor Andrea Bellelli (nota bene: docente alla Sapienza, non di certo alla Statale), “quando il numero chiuso non è richiesto da necessità didattica e quando la materia insegnata rappresenta non solo una professione specifica, ma anche un arricchimento del cittadino, che potrebbe poi svolgere (meglio) una professione non immediatamente correlata alla preparazione ricevuta”.
Che cosa voleva dire il professore? Che se un uomo che legge vale il doppio, un giovane che studia vale quattro volte. E che perciò un paese libero di diventare più colto è un paese migliore, a meno che non venga impoverito dalle logiche dei suoi burocrati. Un paese, una città, un territorio impoveriti anche dal numero chiuso nelle facoltà umanistiche? Forse. E poi a noi viene il dubbio che, a parte le università sigillate e conservate sottovuoto, di “umano” ormai sia rimasto poco. Anche se sembra che sia diventata la parola più in voga, nella vita quotidiana come nel marketing e nella pubblicità: da Benetton (Clothes for humans) a CheBanca (The human digital bank) ad Artemide (The human light) a Beretta (Human wildlife) a Copat (Human Inside) a Barleycorn (Human design) a Reebok (Be More Human) a Fineco (Da sempre investiamo sulla tecnologia più evoluta che esista: l’uomo) e adesso anche il technopole dal volto “human”, in cui dovrebbero confluire multinazionali ed eccellenze milanesi della Statale, per volontà di un gruppo di potere, anche quello eccellente. E a questo punto dovremmo pure ringraziarli; sommessamente, come faceva il goffo Giandomenico Fracchia, sprofondando nella poltrona “Sacco”, quando si rivolgeva al suo severo capoufficio sussurrandogli con un filo di voce: “Ma com’è umano, lei!“.
A proposito: Piero Gatti, uno dei tre designer della famosa poltrona Sacco, uno dei simboli della creatività italiana prodotto nel 1968 da Zanotta a Nova Milanese, è morto un mese fa. In silenzio se ne va un mito. In attesa della prossima week milanese su cui di sicuro si stanno già arrovellando i cervelli dei nostri geniali amministratori e delle infaticabili teste d’uovo dell’innovazione: si chiamerà “human week”? Si accettano scommesse.
Approfondimenti
“Da qualche settimana mi svegliavo un po’ prima delle sei, e appena lavato saltavo in bicicletta e andavo per le strade come uno che va al lavoro. L’aria di Milano era ottima, allora, e la luce bellissima, e vedevo una cosa che non avevo mai visto, lo svegliarsi tranquillo e silenzioso di una città: gente a piedi, gente in bicicletta, tram, operai”. Era la primavera del ’40 e Saul Steinberg si aspettava di essere arrestato: praticamente ogni giorno (eccetto il sabato e la domenica) aspettava l’arrivo dei questurini fascisti, perciò non si allontanava mai troppo da Città Studi. Il piccolo libro che segnaliamo (Riflessi e ombre, Adelphi, una settantina di pagine) è una gemma: frammenti di un’autobiografia raccolta dall’amico Aldo Buzzi (bella scrittura ironica ed eccentrica che “avrebbe incantato Gadda”, secondo Paolo Mauri). Nemico di ogni clamore teatrale, ironico e malinconico, Steinberg racconta la prima parte della sua vita, travagliata ma fascinosa: dalla Romania a Milano, a New York. Un libro piccolo ma enorme, pieno di riflessioni e di insegnamenti, di spunti utili per i giovani creativi, edificante, piccolo antidoto contro il logorio di una città senza più giganti. Noi l’abbiamo comprato, nuovo per 6 euro, in una fiera del libro.
Cercare di capire perché oggi Milano rischia di diventare una caricatura di “capitale dell’innovazione”, e perché, invece, tra gli Anni ’50 e ’70 diventò un vero riferimento nella grafica, nell’editoria, nel design e nell’architettura. Per esempio, confrontandosi con gli ultimi grandi vecchi di quell’epoca straordinaria, come Italo Lupi. “L’unica cosa che non mi piace è il nome,” dice Lupi, “Design Week, e non perché non sia esterofilo o anglofilo, anzi. Ho un amore particolare per la grafica inglese, così come mia moglie adora quella cultura dato che insegnava all’Università lingua e letteratura inglese. Forse la cosa che diede una forte identità all’evento fu proprio il nome, Salone del mobile di Milano; e chiamarlo Design Week, che è lo stesso modo con cui lo chiamano a Londra e a Vienna, per esempio, credo che sia sbagliatissimo: spersonalizza, si perde la coscienza di quello che si è”. In effetti, ormai se non ti inventi una week non sei nessuno. Ci sono week dappertutto. Le donne milanesi non dicono più che hanno il ciclo, hanno la week. Nelle scuole di Milano non ci sono più i trimestri, ci sono le week. Ecco, questo potrebbe essere un buon inizio: ritrovare la propria identità, ricominciare almeno dalle parole, dal linguaggio, dalla comunicazione/partecipazione. Ricominciare anche dalla semplice ricerca di un nome che non sia week e che rappresenti i reali bisogni della gente: sarà rimasto qualche bravo copywriter capace di lavorare al renaming e di ridurre la nuvola di fuffa mediatica che sta avvolgendo Milano?
Italo Lupi parla di Milano, Lambrate e Città Studi.
Essere realisti, invece di sforzarsi di stupire.
E come ciliegina finale, ricordiamo anche un divertente, appassionato e molto istruttivo intervento di Annamaria Testa sull’Italia che maschera vuotezza di idee e provincialismo con patina e linguaggio di una finta innovazione.
Giugno 2017