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Società

Figli di una pubblicità minore

A proposito di “afflizioni” da lavoro. A metà febbraio, nel convulso periodo della campagna elettorale, si è molto polemizzato sulla vicenda della precaria che da un palco, rivolgendosi alla platea del PD, ha accusato la figlia di Pietro Ichino, teorico della “flessibilità”, di aver trovato un lavoro stabile come editor alla Mondadori; probabilmente, insinuava la precaria, in virtù del cognome che porta. Scatenando così il linciaggio e una buona dose di invidia sociale, ma anche un interessante dibattito sulle storture e la mancanza di trasparenza nel mercato del lavoro “intellettuale” e creativo.

Ora, non vogliamo aggiungere altri commenti alla vicenda, anche perché la rete si è già scatenata tra pro e contro le migliori opportunità dei figli di papà, però qualche considerazione va fatta. Va fatta, anche perché Crebs, per noi che lo gestiamo, è un osservatorio privilegiato, cioè puntuale e immediato, nelle rilevazioni delle nuove tendenze. Nello specifico, in quelle della creatività e della comunicazione (centinaia di aziende e migliaia di utenti registrati su Crebs, oltre un milione di visite in un anno). E, quello che intuiamo noi, è quello che vedono e provano sulla pelle molti nostri utenti: una crescente precarizzazione della professione, anche lì dove certe nuove specializzazioni – per esempio, nell’ambito del tanto acclamato digitale – dovrebbero essere tutt’altro che sottovalutate o sottopagate. Ce lo raccontano gli amici di Crebs; e da qui lo odoriamo perfettamente, quando andiamo a filtrare la qualità di certi annunci: sono sempre in agguato irregolarità contrattuali, finto lavoro autonomo, abuso di stage e tirocini.

Precarizzazione, sfruttamento, mancanza di trasparenza: un trend negativo in crescita. Ce ne accorgiamo anche noi, costretti, come dicevamo, a un’ulteriore fatica nell’analisi e nella selezione degli annunci che consideriamo più seri, corretti e rispettosi del lavoratore. In questo contesto, Crebs e altri siti dello stesso genere rendono più semplice e trasparente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, dando spazio alla meritocrazia e ai valori netti, non all’ereditarietà genetica e ai rapporti di parentela o amicizia o alla trasmissione di privilegi da padre in figlio, da zia a nipote, da sodale a sodale. Trasparenza: ecco perché Crebs viene utilizzato soprattutto dalle startup, dalle imprese attive nel digitale, insomma dalle realtà imprenditoriali più agili e vivaci, mai dalle scuole (a parte l’eccellente università di Bolzano, Freie Universität Bozen, scuola con spiccata vocazione internazionale, che ha inserito qualche volta il link di Crebs nella sua newsletter rivolta agli studenti) e raramente da quelle agenzie di pubblicità tradizionale che, tra l’altro, e non a caso, attraversano una crisi senza precedenti.

Ecco un altro argomento: la scuola, sordomuta che genera sordomuti (senza offesa, prendetela per una metafora poetica). Che non è un argomento di poco conto: basta pensare – caso unico nel mondo – che l’Italia ha avuto persino un governo di “professori” (dopo quelli dei generali e dei colonnelli, questa proprio mancava). Del resto, se pensiamo a tutte le estensioni semantiche del termine “cultura”, in Italia l’industria che non conosce crisi è quella dei professori e dei saperi. Per esempio? Per esempio, ci vengono in mente la miriade di corsi di “formazione” finanziati a pioggia (Comuni, Province, Regioni, Stato, Unione Europea tramite FSE), e soprattutto le più esose scuole private, con corposi business attivi nella comunicazione pubblicitaria, nella grafica e nel design, nel marketing, nel giornalismo; scuole che, dopo aver prosciugato i conti dei genitori, procedono alla formazione dei figli in disoccupati cronici (senza curarsi di inserirli nel mondo del lavoro poi, o almeno di avvisarli prima, all’atto dell’iscrizione, che forse è meglio dedicarsi ad altri mestieri, perché esiste un surplus, un gap che per decenni sarà incolmabile, un’eccedenza di offerta rispetto alla domanda delle imprese).

Pensiamo alle università italiane, ai loro innumerevoli master e al fiume di neo massmediologi e “comunicatori” che ogni anno riversano nel nostro Paese (l’ultima novità è il Digital Specialist, tanto “specialist” che non sarà in grado di scrivere – ci giuriamo – neanche una riga di HTML). Ma questa è l’Italia: paese di santi, navigatori, specialisti ed esperti. Si comincia presto, da giovani, a diventare esperti: quando al bar si rifanno le formazioni ai vari Ancelotti, Prandelli, Lippi e Capello, e poi si prosegue sino al vitalizio dell’Inps. Tutti esperti in Italia, tutti manager. Tanto esperti che soltanto l’anno scorso sono state chiuse 104mila aziende: 12mila fallimenti, 90mila liquidazioni, 2mila procedure non fallimentari. Questa è l’economia, bellezza.

Ma se questo è l’iperuranio, il mondo dei demiurghi e delle idee perfette, quali saranno i risultati, cioè che cosa succede nel mondo reale? L’abbiamo appena scritto: 104mila aziende chiuse in un solo anno. Con risultati devastanti per il settore della comunicazione, dove c’è anche chi si diverte a raschiare il barile. Per esempio, negli ultimi tempi assistiamo all’orrenda attività di quei siti che, offrendosi con una sorta di caporalato per le aziende, mettono in gara decine di presunti creativi per un compenso micragnoso (ci hanno riferito: un centinaio di euro IVA compresa per il naming o per un logo), svilendo così alla radice e minando, in via definitiva, professioni consolidate – grazie ai padri più o meno nobili della pubblicità – come il copywriting o il graphic design.

Ma alla fine, ammesso che un giovane creativo, dopo aver speso soldi e anni di studi e formazione (adeguata, si spera), dopo aver superato gli ostacoli della disoccupazione crescente e della precarietà, riesca a passare questo tunnel, a superare la notte, a smettere di contemplare le vaghe stelle dell’Orsa e ricoprire un ruolo dignitoso, con un lavoro stabile; alla fine di tutto questo, che cosa gli succede? Gli succede che entrerà in uno studio, una web agency o una grande agenzia di pubblicità tradizionale, firmerà un contratto decente, forse si sentirà meglio, ma scoprirà che il suo settore è quello del commercio, insieme a venditori ambulanti e commessi, carrettieri e cenciaioli, mercanti, panettieri, rottamai e pescivendoli (a cui andrà tutta la sua simpatia, ma che lo spingerebbe a dire, prendendo in prestito Bruce Chatwin: What Am I Doing Here?). Perché nel settore commercio? Non lo sappiamo. Bisognerebbe chiederlo a certi organismi e associazioni votati alla difesa, alla promozione e al miglioramento delle condizioni di lavoro di chi opera nel settore della comunicazione. Insomma, non chiedetelo a noi: chiedetelo, per esempio, a quei geni di Assocomunicazione.

Febbraio 2013


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